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In occasione del suo soggiorno a Villa Medici, Claire Chevrier ha cercato di elaborare una mappa di Roma attraverso le proprie fotografie. Per quasi dodici mesi ha percorso il territorio della capitale e i suoi dintorni allo scopo di documentarne i diversi spazi, lontana dagli stereotipi turistici generalmente circoscritti al centro storico. I luoghi selezionati, scelti a prescindere dalla loro significatività, definiscono un’identità – ellittica e frammentaria – in grado di evocare la complessità di un ambiente urbano e dei suoi sobborghi più o meno curati.
Tra le foto è possibile vedere l’interno della basilica di San Giovanni in Laterano, il blocco moderno di Corviale progettato dall’architetto Mario Fiorentino negli anni Settanta, lo Stadio Olimpico eretto nel 1953 al centro del Foro Italico, un accampamento di zingari nei pressi del Tevere e una cava di travertino. Ciascuno di questi ambienti presenta una specifica geografia e ha una storia propria. Ma il loro accostamento rivela in filigrana la ricostituzione parziale della topografia culturale di Roma. In questo senso il lavoro di Claire Chevrier può essere interpretato in termini di descrizione. Ma tale dimensione descrittiva non comporta una particolare fede nella registrazione letterale della realtà.
Il titolo generico utilizzato per la maggior parte delle foto (Spazio di rappresentazione) traduce esplicitamente il distacco dal reale percepibile nel vuoto dei primi piani. Lo spazio lasciato sgombro da qualsiasi oggetto consente un distanziamento rispetto al soggetto della foto o alla scena visibile sullo sfondo. Invita lo spettatore a non proiettare se stesso nell’immagine. Il rifiuto dell’empatia – troppo affine all’illusione – testimonia la volontà di Claire Chevrier di respingere la trasparenza della riproduzione fotografica a favore dell’affermazione di una costruzione visiva. La fotografia viene concepita come composizione strutturata e non come mero documento di ciò che è stato percepito e registrato. Questa organizzazione compositiva non è tuttavia ostentata. Le immagini di Claire Chevrier non cercano di esibire una rigorosa oggettività privilegiando la capacità della tecnica digitale di cogliere i frammenti del mondo con implacabile precisione grafica. Esse rinunciano alla plasticità artificiosa e alla possibilità di sedurre per lasciare spazio a un’indifferenza estranea all’occhio umano.
Tali fotografie percorrono la strada della neutralità, ma una neutralità che è innanzitutto un ripiegamento. In altre parole le opere di Claire Chevrier si contraddistinguono per la discrezione. Uno sguardo troppo precipitoso le definirebbe anodine. Ed è vero che le sue immagini si sottraggono all’aneddoto o all’avvenimento. In un’epoca di inflazione delle produzioni visive, ricorrere alla facile stravaganza, al “pugno” ben assestato, serve ad attirare l’attenzione e a cercare di non sparire nel flusso in perenne espansione delle immagini globali. Da parte sua Claire Chevrier ha scelto una sorta di banalità che va collocata nel fuori campo di un universo mediatico il cui regime di sovravisibilità condanna le immagini a divenire semplici stimoli nervosi.
Esaminiamo le due foto dell’architettura di recupero sviluppata dagli zingari che affittano le proprie baracche – tra il Grande Raccordo Anulare e il Tevere – a immigrati filippini e rumeni. La prima mostra una strada sterrata che attraversa una natura piuttosto densa. Un solo dettaglio suggerisce l’esistenza di queste precarie abitazioni: sulla destra appare una porta realizzata con una rete da letto e un telone di plastica verde. Nessun aggancio possibile alla narrazione. Si tratta solo di uno spazio ibrido tra natura e cultura, materiali poveri e ingegnosità costruttiva, presenza dimessa e desolazione; rasenta l’indeterminatezza. La seconda mostra l’interno di una costruzione le cui vetuste suppellettili ne perfezionano l’integrazione nell’ambiente arboreo che si intravede attraverso la copertura di tela. Anche in questo caso la fotografia non enuncia con vigore alcunché. Lo scopo non è quello di comunicare un messaggio. Claire Chevrier sembra al contrario indicare la necessità di lasciar accadere le cose.
Perché "spazi di rappresentazione" non si riferisce solo alle sue composizioni ma anche alla realtà messa in scena prima dell'intervento della fotografa. Sotto questo aspetto il mondo è davvero una scenografia. Tale idea non si rifà necessariamente alle nozioni di simulacro e simulazione introdotte da Jean Baudrillard e spesso indicate come equivalenti di una derealizzazione. Se il mondo è una scenografia lo è perché prodotto e organizzato dall’uomo, ovvero da nazioni, imprese o gruppi sociali di tutti i tipi. Esso risponde dunque a una Weltanschauung (visione del mondo) che non si limita all’astrattezza delle idee teoriche, ma si realizza nella trasformazione materiale dell’ambiente. Si tratta di visioni o ideologie che si intersecano e si sovrappongono in modo da produrre ciò che noi chiamiamo realtà: quello spazio fisico della vita quotidiana che contiene tutte le immagini disponibili.
Le opere di Claire Chevrier eludono l’espressività soggettiva allo scopo di rivelare tali rappresentazioni concrete. Queste ultime risultano piuttosto evidenti quando la fotografa si concentra su una cerimonia religiosa, ma sono assai meno connotate quando ella ritrae il panorama di una zona industriale in costruzione. In questo caso il sito si legge come uno dei teatri dell’economia capitalista in cui la piantagione di giovani alberi ha come funzione il connubio – ideale e invisibile – della natura pacificata con il funzionalismo a buon mercato che continua a essere il motore di questo tipo di architettura periferica. Ogni volta l’arretramento compiuto da Claire Chevrier induce alla riflessione piuttosto che alla contemplazione. Gli spazi fotografati sono allo stesso tempo banali e non scontati. L’ordinario diventa un contesto da indagare. Il punto di vista della fotografa invita in effetti ad interrogarsi senza che la situazione presentata riveli uno stato di crisi o una tensione. L’abbandono della drammatizzazione rivela un’acutezza critica senza pedanteria o moralismi.
È piuttosto significativa in questo senso la serie dei tre “suoli”: una ballerina sdraiata sul ventre in una sala prove; due operai ripresi dall’alto su una lastra di travertino; due restauratori che lavorano agli intarsi del duomo di Siena. I gesti dei vari personaggi non sono enfatici, la loro corporeità non è esagerata. Gli atteggiamenti di ciascuno costituiscono per contro una sorta di delicata coreografia perfezionata dalla pratica, rispondono ad abitudini professionali e ricordano che i luoghi suscitano comportamenti caratteristici. È un modo di sottolineare che gli “attori” sono spesso condizionati dall’ambiente in cui si muovono. E se le loro sagome si stagliano sulla superficie vuota su cui poggiano, ciò avviene allo scopo – ancora una volta – di dare la possibilità all'osservatore di occupare un interstizio distante dalla scena.
In ultima analisi le foto di Claire Chevrier rivelano un approccio antropologico particolarmente sfumato. Esse catalogano vari spazi di rappresentazione italiani non per narrare una pittoresca commedia dell’arte, ma allo scopo di scorgere nella loro varietà i modi culturali di impegno nel mondo. La sobrietà del suo metodo è coerente con l’assenza di magniloquenza formale. E in un periodo in cui la fotografia talora cede alla spettacolarità si tratta di un atteggiamento che non si può che apprezzare. L’occhio ne guadagna in acutezza.
Fabien Danesi, 2008